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Qualcosa su di me.


“Ero straordinariamente affascinato dalla sua potenza, dalla sua cultura. Un uomo che poteva buttare giù i muri, che non ho mai sentito pronunciare parole mediocri o banali, che mi ha insegnato a lottare...”. Paolo Crepet ricorda così Franco Basaglia, quello che chiama il suo maestro.
Con lui si è incamminato in un percorso professionale dalle mille contaminazioni culturali e umanistiche, in lui ha trovato un uomo pronto a fargli da guida proprio nel momento che lo vedeva concentrato a tracciare la svolta della psichiatria italiana, quella che ha cambiato il concetto di follia fino a generare la chiusura dei manicomi.
Paolo Crepet e Franco Basaglia si sono conosciuti a Padova. Basaglia - veneziano - era collega e amico di suo padre, Massimo Crepet, pioniere della medicina del lavoro e prorettore dell'ateneo padovano. Erano anni in cui l'Italia guardava con diffidenza a Basaglia, tendeva a liquidarlo con l'etichetta di “testa calda”, atteggiamento che non fu di Massimo Crepet, l'accademico che in un periodo di difficoltà gli ha aperto le porte della sua scuola di specializzazione in Medicina del Lavoro per dargli un rifugio.
Allora non era scontato che le idee dello psichiatra più discusso e creativo del novecento si sarebbero affermate, che la sua azione di rottura potesse divenire il progetto guida di un nuovo modo condiviso di rapportarsi alla malattia mentale, una legge dello Stato, la “180”.

"Mi piace l'umanità, l'uomo, per questo da ragazzo ho guardato la facoltà di medicina come un modo per avvicinarlo. Poi la psichiatria è arrivata come scelta estrema in una grande stagione culturale. Se guardo più in profondità posso dire che c'è anche un'altra radice nella scelta di fare lo psichiatra, che affonda nel clima respirato da bambino grazie ai miei nonni, entrambi artisti. Quello paterno, pittore veneziano, era un intellettuale dell'arte, quello materno, ceramista marchigiano, era un artigiano dell'arte. Con loro ho passato tanto tempo, tempo che ha voluto dire una lunga infanzia felice, un periodo in cui ho immagazzinato sensazioni, emozioni, potenzialità. La mia famiglia mi ha insegnato il valore della creatività, dell'immaginazione, del “bello”. Tutto parte dalla ricerca della felicità e per questo credo che la psichiatria sia l'arte di rimuovere gli ostacoli alla felicità. Sono convinto che la psichiatria abbia più a vedere con l'arte che con altro".

"E' stata nell'ospedale psichiatrico di Arezzo, dove sono rimasto tre anni, fino al 1979. Un'esperienza straordinaria in un momento straordinario. Ho avuto la fortuna di vivere il mio esordio professionale nel luogo dell'avanguardia e della sperimentazione. Un laboratorio eccezionale dove non si sentiva la dimensione ristretta della provincia italiana, era come stare a Madison Square.
In due anni ho avuto modo di conoscere i più importanti nomi della psichiatria, esperti che venivano da tutto il mondo per osservare il nostro esperimento di apertura dei manicomi, di riconsegna dei reclusi alla società civile.
Poi però ho preferito lasciare per un po' l'Italia. Ho colto al volo una borsa internazionale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e ho cominciato a girare il mondo: ho lavorato in Danimarca, Inghilterra, Germania, Svizzera, Cecoslovacchia e infine in India. Viaggiare è stata un'altra eccezionale opportunità formativa. Più tardi i contatti internazionali sono stati fondamentali e sono sfociati nell'insegnamento in varie università: a Toronto, a Rio de Janeiro, al Centro di Studi Europei di Harward".

"Al ritorno in Italia ho ritrovato Franco Basaglia ed ho accettato il suo invito a seguirlo a Roma. Anche lui aveva lasciato Padova, ahimè città bigotta in cui non è facile vivere con un respiro ampio, da dove io peraltro me ne ero andato dopo i primi anni di Medicina anche perché consideravo troppo condizionante il fatto di essere il figlio di Massimo Crepet. E' così che scelsi Verona dove conobbi un altro personaggio straordinario, il professor Hrayr Terzian, collega e amico fraterno di Basaglia".

"Nella mia vita ho sempre scelto più le persone che le situazioni. Ho sempre cercato individui che fossero molto di più di quello che facevano ed ho avuto la fortuna di averli vicini. Queste persone sono stati i miei grandi maestri. Il mio incontro con Basaglia è stato su questo piano. Io, ventiseienne, con lui scoprivo cosa significa pensare con la propria testa. Lui mi ha spinto a cercare la mia individualità, mi ha insegnato a valutare l'individuo, a lottare per la mia “vita”.

"Franco Basaglia era stato chiamato a coordinare i servizi psichiatrici della Regione Lazio. Scelse me per quello della città di Roma. Erano gli anni in cui il sindaco era un uomo straordinario, Luigi Petroselli. Insieme cominciavamo a guardare ad un orizzonte con un'infinità di progetti. Ma Franco morì pochi mesi dopo. Una perdita sostanziale. Abbiamo cercato di non bloccare il “cantiere” che si era aperto. Con Renato Nicolini, allora assessore alla cultura, abbiamo inventato tante cose, portato un'aria di novità in una città in cui la cultura psichiatrica era fondata su un manicomio enorme e su una miriade di case di cura private. Ma è stata dura, molto dura, soprattutto per me perché ero molto giovane e solo, con addosso l'ombra di un grande uomo precocemente scomparso. All'epoca i contatti internazionali mi salvarono un'altra volta. L'Organizzazione Mondiale della Sanità mi chiese di coordinare un progetto sulla prevenzione delle condotte suicidarie, questione che la società rifiutava e che la psichiatria, anche quella riformata, rimuoveva. E' stato a quel punto che ho cominciato a dare un senso definito alla mia identità professionale. Ho deciso di concentrarmi su quel tema specifico che alla fine mi ha condotto ad avvicinare in modo particolare le questioni giovanili. L'essermi occupato di suicidio ha prodotto il libro “Dimensioni del vuoto”: è stata la prima volta in cui in Italia è stata edita una pubblicazione su questo argomento. Le vendite mi incoraggiarono a continuare a scrivere. Così l'idea di riflettere sui “ragazzi cattivi” e la pubblicazione di “Cuori violenti”, che ha venduto 70.000 copie".

"Ho cominciato a dare un grande spazio all'attività divulgativa. Così qualche trasmissione televisiva si è accorta di me, e poi le radio, i giornali. Tutto questo mi ha costretto a cambiare linguaggio e modo di comunicare. Ho anche cambiato pubblico: non più i miei colleghi, non più solo congressi e seminari scientifici, ma incontri con la gente, i giovani, i genitori, gli insegnanti, semplici cittadini. Anche i miei libri ne hanno tenuto conto, finalmente mi sono liberato dalla costrizione del parlar difficile, del linguaggio tecnico. Mi sento più libero e privilegiato: posso dire ciò che penso senza filtri, senza ipocrisie perché la gente capisce, gli “esperti” meno".

"Io credo che le cose importanti si comunicano raccontando delle storie, storie che hanno una motivazione didattica. Ho sempre pensato che Dostoevskij o Tolstoj fossero immensamente più capaci di interpretare e descrivere l'animo umano di quanto non lo siano stati Freud o Jung.
Sento l'esigenza di usare la scrittura come grande possibilità di comunicare, per inquietare.
Come diceva Calvino “un buon libro è quello che quando lo sfogli puoi annusare tutta l'inquietudine di chi l'ha scritto”.
Trovo che scrivere sia come godere della più alta forma di libertà: quella di indignarsi".